Favoloso elzeviro dal Corriere della Sera, Mi ricordo di quante volte ho parlato di quest’articolo. Per me è un opera d’arte. Spettacolare, vi farà riflettere.

Quando si sente dire che un capufficio firma in un giorno trenta o quaranta lettere, che i dirigenti d’azienda, gli impiegati di banca o i funzionari dello Stato adoperano addirittura una firma ridotta ad uno sgorbio chiamato sigla per sottoscrivere ordini di servizio, buoni di consegna, certificazioni d’incasso, passaggi di valuta o di merce su centinaia di bollette e di moduli, ci si rende conto che l’uomo oggi firma con la stessa facilità con la quale fuma, tossisce, beve, soffia il naso o sputa, cioè senza riflettere, e soprattutto senza dare importanza alcuna all’atto che sta per compiere.

Ben altra cosa era il firmare fino a un po’ di anni fa. Intanto, nessuno firmava in piedi, come fanno oggi i vigili urbani, i ferrovieri, i destinatari di una raccomandata o d’un pacco e moltissimi magazzinieri o controllori, i quali si servono di blocchetti donde spiccano senza posa tagliandi con tanto di firma o sigla, mandandoli qua e là, come foglie portate dal vento.

La firma era, fino a non molti anni fa, una cerimonia vera e propria, che veniva compiuta quasi sempre in presenza di testimoni attentissimi, davanti a notai o magistrati, e a suggello di impegni assunti per tutta la vita. Nessuno sottoscriveva col cappello in testa o con indosso un cappotto. Chi firmava doveva mettersi a suo agio, ben seduto, non impedito dal giromanica d’un soprabito, col polso ben sciolto e, se era il caso, dopo aver inforcato un paio d’occhiali.

Era comunissimo, di persone anche d’importanza ma che non firmavano tutti i giorni, il compiere, prima di affrontare la carta bollata, un prova di scrittura sopra un foglietto qualsiasi. La prova serviva ad alleggerire il pennino di un possibile sovraccarico d’inchiostro che avrebbe potuto causare una macchia, una di quelle macchie dai bordi frastagliati e con una corona di spruzzi che gettavano l’angoscia nel cuore del firmatario; ma più che a riparare le conseguenze di uno sregolato intingere, lo sgorbio fatto come a caso su un pezzo di carta straccia a scaricare la tensione dello scrivente e a dar l’avvio al gesto fatidico della firma, col ghirigoro o lo svolazzo che la completava e la personalizzava.

Colui che firmava, poggiava una mano aperta sul foglio per tenerlo fermo, piegava il capo sul piano del tavolo, strabuzzava gli occhi e iniziava l’operazione senza poter trattenere una smorfia della bocca o delle guance, che seguivano con stiramenti o contrazioni l’andamento della mano, i suoi inceppi, le sue soste e la sua corsa finale verso un paraffa che riusciva sempre uguale o quasi, e si presentava, nel suo disegno astratto, come la sintesi grafica di un carattere, di un temperamento.

Innanzi alle corti di giustizia, davanti ai notai, agli ufficiali dello Stato Civile o a quelli di polizia, non era raro assistere alla firma di un popolano o di un contadino, la quale non era meno solenne e laboriosa di quella di un notabile. Il contadino, al quale fin dall’infanzia veniva raccomandato di non mai firmare e di non mai giurare, e che sapeva per esperienza sua o di suoi consanguinei quanto fosse irrimediabile l’impegno sottoscritto, avvicinandosi al tavolo dove l’aspettavano carta penna e calamaio, si sentiva mancare, Uomini che reggevano due buoi aggiogati all’aratro, che piegavano un ramo grosso quanto un braccio d’uomo, che con la vanga o la zappa rompevano e rivoltavano la terra, quando avevano nelle mani la penna sembravano aggravati da un peso insopportabile. Spesso, dopo aver vergato faticosamente la prima lettera del proprio cognome, alzavano il viso sfiniti come dopo un salasso e sulla loro fronte apparivano gocce di sudore. La fatica necessaria a costringere il braccio e la mano ad un troppo piccolo movimento, e la stessa necessità di uno spostamento contenuto della penna, rendevano ardua l’impresa.

Ma alle costrizione fisiche si sovrapponevano, ben più gravi, le repulsioni morali: la consapevolezza di assumere un impegno dal quale non si sarebbe mai potuto recedere, e l’impressione di abbandonare in mano altrui e non sempre amica o fidata qualche cosa di così intimamente legato alla persona, come è il geroglifico inimitabile del proprio nome e cognome. Ne veniva un complesso di inibizioni, di timori repressi, di nefaste previsioni per il futuro che formavano, sulle spalle di colui che firmava, un peso più grave di qualunque altra somma. E raro non era che da una di quelle firme scaturissero guai, perdite di danaro, alienazioni di proprietà, gravami di servitù prediali o di usucapioni, spostamenti di assi ereditari, cessazioni di consuetudini vantaggiose o d’altri privilegi faticosamente acquisiti nel tempo.

L’antico detto “Datemi due righe di un galantuomo e ve lo manderò in galera” era trapassato, col conforto di esempi infiniti, nella norma del non firmare mai né per bene né per male. Ma diventava inevitabile, anche nella vita del contadino più cauto e più lontano dai negozi, l’apporre qualche firma: il dì delle nozze, al momento di una compravendita o alla fine della vita, quando occorreva provvedere ad una equa divisione dei propri beni. Casi estremi, occasioni e date memorande che la forma incoronava come un magico emblema, ma sempre con una certa diffidenza, come è di ogni cosa simbolica.

 

L’uomo, fin dai tempi della sua vita primitiva, dovette sempre temere di lasciare l’impronta del piede o della mano, alla vista della quale poteva venir riconosciuto, localizzato, scoperto e messo in pericolo. Col passare del tempo e col sopravvenire dei costumi civili, gli subentrò il timore di lasciare quell’altra incancellabile e innegabile traccia di sé che è la firma. Affidare ad estranei ciò che pertiene alla propria personalità è cosa alla quale rilutta ogni persona saggia; tanto è vero, che gli antichi imperatori della Cina, alla fine di ogni anno, volevano di ritorno tutti i rescritti inviati ai governatori delle loro provincie.

Solo i poeti gli scrittori, gli artisti e in genere gli uomini di qualche notorietà, distribuiscono firme a destra e a sinistra, favorendo cacciatori d’autografi, fanatici seguaci e ammiratori che vogliono portarsi a casa un frammento, una scaglia, dell’essere umano che hanno in qualche modo divinizzato.

Il rilasciare autografi è infatti un dare qualche cosa di sé, un concedere al culto una particola della propria essenza perché fortifichi e consolidi la devozione dei fedeli. Il che, se si giustifica in chi si crede oggetto di venerazione o almeno di “tifo” come l’artista e lo sportivo famoso, non ha senso per persone oscure, che da un segno propalatore della loro presenza nel mondo possono aspettarsi soltanto danno e nocumento.

I selvaggi che Magellano andava conoscendo nel suo viaggio intorno al mondo, nelle loro ingenuità credettero diabolica l’operazione dello scrivere; e il simile pensarono sempre padri e madri, fino al Settecento, se è vero che alle fanciulle non veniva insegnato a tener la penna per preservarle dai commerci epistolari, pronubi d’altri e più pericolosi commerci. Faccenda di gente infima, che non aveva nulla da perdere, i nobili ritennero lo scrivere, che disdegnavano e abbandonavo a segretari e amanuensi.

Solo oggi, che il leggere e lo scrivere è di tutti, la firma si appone da chiunque senza alcuna precauzione su qualunque pezzo di carta. Ma chi la verga così leggermente e con tanta indifferenza, sembra ormai consapevole della poca importanza che ha il qualificarsi e il farsi riconoscere in un mondo dove le singole personalità hanno perso valore e dove l’uomo si esprime per gruppi, partiti, concorrenti, sindacati, nazionalità, ideologie, razze ed altre categorie, che amalgamo in blocchi consistenze le troppo labili apparenze individuali e le sospingono unite e salde a nuove sorti, magnifiche come sempre e progressive.